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21 giugno 2018

Maturità 2018: Il giardino dei Finzi Contini" non è una scelta banale

Non è un caso che il MIUR abbia scelto questo romanzo come prova di analisi del testo nell'esame di maturità di quest'anno; non può essere un caso, in un momento in cui si parla a cuor leggero, troppo leggero, di chiusura dei porti o di freddo conteggio di persone. In questo momento in cui l'Italia trova nostalgici spunti di vicinanza con Austria ed Ungheria (è stata appena promulgata una legge magiara che prevede il carcere per chi fornisce aiuti agli immigrati clandestini), non è per niente un caso che l'apparato, quello a volte burocraticamente elefantiaco e criticabile, tuttavia costituito da tecnici che sono la spina dorsale permanente dei ministeri, abbia scelto questo romanzo. E' l'apparato che spesso garantisce la continuità della democrazia e che sa come frenare i pericolosi impeti della politica, mandando dei segnali di allarme e circoscrivendo i limiti del nostro ordinamento giuridico. 
Così ci pare che abbia fatto anche in quest'occasione l'apparato del Ministero dell'Istruzione, scegliendo di proporre nella prova di analisi del testo il romanzo della inesorabile persecuzione razziale nell'Italia del fascismo, spietata anche verso gli ebrei più ricchi, come i Finzi Contini che avevano condotto fino ad allora una vita agiata ed integrata nel sistema politico sociale.

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Il giardino dei Finzi Contini - trailer
Tutte le tracce ufficiali della prima prova pubblicate dal MIUR
«Più del presente contava il passato», scrive Bassani, che di Micol dice: «Il futuro lei lo aborriva».         
Perché il futuro non poteva esistere così come si prospettava, e perché il passato era stato troppo benevolo per poter tollerare uno sradicamento talmente violento.

Ecco il brano proposto per l'esame di Stato:
(…) Una sera non mi riuscì di trattenermi. Certo – gridai, rivolto a Malnate -: il suo atteggiamento dilettantesco, in fondo da turista, gli dava modo di assumere nei riguardi di Ferrara un tono di longanimità e di indulgenza che gli invidiavo. Ma come lo vedeva, lui che parlava tanto di tesori di rettitudine, bontà, eccetera, un casosuccesso a me, proprio a me, appena poche mattine avanti? Avevo avuto la bella idea – cominciai a raccontare – dì trasferirmi con carte e libri nella sala di consultazione della Biblioteca Comunale di via Scienze: un posto che bazzicavo fino dagli anni del ginnasio, e dove mi sentivo un po’ come a casa. Tutti molto gentili, con me, fra quelle vecchie pareti. Dopo che mi ero iscritto a Lettere, il direttore dottor Ballola aveva cominciato a considerarmi del mestiere. Gli bastavasalutarmi, e subito veniva a sedermisi a fianco per mettermi a parte dei progressi di certe sue ormai decennali ricerche attorno al materiale biografico dell’Ariostocustodito nel suo studiolo particolare, ricerche con le quali si proclamava sicuro di superare decisamente i pur cospicui risultati raggiunti in questo campo dal Catalano.Quanto poi ai vari inservienti, costoro agivano nei miei confronti con tale confidenza e famigliarità da dispensarmi non solamente dalla noia di riempire i moduli per i libri, ma da lasciarmi addirittura fumare di tanto in tanto una sigaretta. Dunque, come dicevo, quella mattina mi era venuta la bella idea di passarla in biblioteca. Senonché avevo avuto appena il tempo di sedermi a un tavolo della sala di consultazione e di tirar fuori quanto mi occorreva, che uno degli inservienti, tale Poledrelli, un tipo sui sessant’anni, grosso, gioviale, celebre mangiatore di pastasciutta e incapace di mettere insieme due parole che non fossero in dialetto, mi si era avvicinato per intimarmi d’andarmene, e subito. Tutto impettito, facendo rientrare il pancione e riuscendo persino a esprimersi in lingua, l’ottimo Poledrelli aveva spiegato a voce alta, ufficiale, come il signor direttore avesse dato in proposito ordini tassativi: ragione per cui – aveva ripetuto – facessi senz’altro il piacere di alzarmi e di sgomberare. Quella mattina la sala di consultazione risultava particolarmente affollata di ragazzi delle Medie. La scena era stata seguita, in un silenzio sepolcrale, da non meno di cinquanta paia d’occhi e da altrettante paia d’orecchie. Ebbene, anche per questo motivo – seguitai – non era stato affatto piacevole per me tirarmi su, raccogliere dal tavolo la mia roba, rimettere tutto quanto nella cartella, e quindi raggiungere, passo dopo passo, il portone a vetri d’entrata. Va bene: quel disgraziato di Poledrelli non aveva eseguito che degli ordini. Però stesse molto attento, lui, Malnate, se per caso gli fosse capitato di conoscerlo (chissà che anche Poledrelli non appartenesse alla cerchia della maestra Trotti!), stesse molto attento, lui, a non lasciarsi fregare dalla falsa apparenza di bonarietà di quel suo faccione plebeo. Dentro quel petto vasto come un armadio albergava un cuoricino grande così: ricco di linfa popolare, d’accordo, ma per niente fidato.E poi, e poi! – incalzai -. Non era perlomeno fuori di posto che lui venisse adesso a fare la predica non dico ad Alberto, la famiglia del quale si era sempre tenuta in disparte dalla vita associata cittadina, ma a me che, al contrario, ero nato e cresciuto in un ambiente perfino troppo disposto ad aprirsi, a mescolarsi con gli altri in tutto e per tutto? Mio padre, volontario di guerra, aveva preso la tessera del Fascio nel ’19; io stesso ero appartenuto fino a ieri al G.U.F. Siccome dunque eravamo sempre stati della gente molto normale, noialtri, anzi addirittura banale nella sua normalità, sarebbe stato davvero assurdo che adesso, di punto in bianco, si pretendesse proprio da noi un comportamento al di fuori della norma. Convocato in Federazione per sentirsi annunciare la propria espulsione dal partito, espulso quindi dal Circolo dei Negozianti come indesiderabile: sarebbe stato veramente strano che mio padre, poveretto, opponesse a un simile trattamento un volto meno angosciato e smarrito diquello che gli conoscevo. E mio fratello Ernesto, che se aveva voluto entrare all’università aveva dovuto emigrare in Francia, iscrivendosi al Politecnico di Grenoble? E Fanny, mia sorella, appena tredicenne, costretta a proseguire il ginnasio nella scuola israelitica di via Vignatagliata? Anche da loro, strappati bruscamente ai compagni di scuola, agli amici d’infanzia, ci si aspettava per caso un comportamento d’eccezione? Lasciamo perdere! Una delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media comune. (…)